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"LA DONNA E LA TRAGEDIA" di Ferdinando Esposito, 4B

“Ma il fatto è questo: noi donne, fra tutti gli esseri animati e dotati di senno, siamo certo le creature più misere. Dapprima con un'enorme quantità di soldi è necessario acquistarsi un marito, prendersi uno che si fa padrone del nostro corpo. Ma c'è assai di peggio: prendersi un uomo cattivo o buono. infatti non fa onore a una donna il divorzio né, d'un marito, è lecito il ripudio. Se poi la donna arriva in un paese nuovo con nuove leggi e costumanze, dev'essere indovina poiché che dapprima, a casa sua, nessuno gliel'ha detto con quale sposo avrà rapporto”. Queste parole sono gridate da Medea (protagonista di una tragedia di Euripide), una barbara di secoli passati, ma risuonano ancora fortemente attuali, sia perché in alcuni Stati la subordinazione della donna all’uomo è legittimata dalla legislazione stessa, sia perché assistiamo a manifestazioni violente, della volontà di supremazia maschile su quella femminile.

 

Noi, che siamo ad un liceo classico, abbiamo una possibilità in più di aprire una finestra sul passato per approfondire delle tematiche universali, come il ruolo della donna nella società e il suo rapporto con l’uomo, a partire dalle nostre radici. Presso i Greci, la donna era vista come portatrice di dolori e sofferenze. Esiodo, infatti, ci parla della prima donna giunta sulla terra, Pandora, che aprì il vaso e ne fece uscire tutti i mali segnando la fine della felicità dell’uomo. Questa visione negativa della donna è presente anche nell’Antico Testamento nella figura di Eva.

 

Sappiamo bene che in Grecia la donna, priva di diritti politici, era relegata al ruolo passivo e domestico che la società le imponeva: filare, tessere, organizzare il lavoro degli schiavi, allevare i figli, preparare i pasti e svolgere le pulizie. La donna, successivamente, passava dalle mani del padre a quelle del marito; Il suo patrimonio, la “dote”, ricevuta nel momento in cui si sposava, anche se di sua proprietà, veniva amministrata dallo sposo. Essi potevano ridare la sposa al padre quando volevano, restituendo, però, anche il patrimonio. Solo al marito era concesso commettere adulterio senza pagare alcuna pena, e non gli veniva imposta la stessa fedeltà della moglie, egli, infatti, si poteva far accompagnare da concubine ed etere che si esibivano durante i banchetti per il piacere maschile, ma che al contempo erano più libere delle spose, potendo gestire autonomamente i propri averi ed uscendo di casa a loro piacimento. Ad Atene era permesso alla donna di uscire solo durante le feste religiose e i funerali, sempre in compagnia di un’ancella. Nonostante ciò, abbiamo delle testimonianze di alcune “donne” presenti nei teatri (non sappiamo però se spose o etere). A questo proposito, bisogna approfondire come veniva portata sulla scena la figura della donna che come vedremo, appare completamente diversa rispetto al quadro fin qui delineato.

 

Nelle “Supplici di Eschilo”, vediamo le Danaidi che si ribellano al matrimonio forzato tentando di uccidere i mariti (gli Egizi) durante la prima notte di nozze. Scoperto l’accaduto, Linceo (l’unico sposo sopravvissuto, poiché Ipermestra non volle ucciderlo) le punisce con la morte. Nonostante la terribile sorte che spetterà loro nell’Ade, continuare a riempire d’acqua, per l’eternità, un’urna costellata da fori, Eschilo esalta il coraggio e la determinazione che le Danaidi hanno mostrato nell’affermare la loro libertà, tentando di uscire dai canoni imposti loro dalla società.

 

Nell’ “Antigone di Sofocle”, ci troviamo a Tebe dopo lo scontro tra Eteocle e Polinice, fratelli che muoiono combattendo l’uno contro l’altro, il primo difendendo la sua città, il secondo tentando di conquistarla. Il re Creonte, zio dei due fratelli, impedisce a chiunque di seppellire il corpo di Polinice, ritenuto un traditore. Tuttavia, Antigone, sorella di Eteocle e Polinice, fu l’unica ad opporsi all’imposizione dello zio. Sua sorella Ismene tenta di convincerla a rispettare il dettame di Creonte, dicendo: “noi siamo donne, che cosa possiamo fare se non stare a guardare?” Ma Antigone decide comunque di seppellire il corpo di Polinice, essendo convinta di essere nel giusto poiché sta rispettando una legge divina. Viene, però, scoperta e portata da Creonte che, pur esitando, la condanna a morte. Egli, essendo il re di Tebe, non può venir meno alle leggi della città, ma nel farlo non rispetta le leggi imposte dagli dei e dalla coscienza. Qui Sofocle ci pone un interessantissimo dubbio: perché Antigone è stata punita? A differenza delle Danaidi lei non ha ucciso nessuno, anzi ha solo rispettato le leggi della natura (cosa che non ha fatto Creonte), ma allora perché Antigone ha dovuto dare la vita per una colpa che non ha commesso e Creonte no? La risposta a queste domande potrebbe essere il conflitto tra l’utile politico, espresso da Creonte, uomo di potere, e il giusto morale, espresso da Antigone, donna.

 

Nella “Medea di Euripide”, vediamo la protagonista che, per colpa di Afrodite, si innamora follemente di Giasone e lo aiuta a recuperare il Vello d'Oro, essendo un’abilissima maga. Per aiutarlo, la donna uccide perfino il proprio fratello. Dopo la formidabile impresa, si rifugiano a Corinto si sposano e generano due figli. Giasone, però, avido di potere, la lascia per sposare la figlia del re di Corinto che gli offre il regno. La tragedia inizia con Medea infuriata per essere stata tradita nonostante abbia lasciato la sua patria e sacrificato la sua stessa famiglia per seguire l’uomo. Medea, non essendo più sua sposa legittima, ripudiata, è costretta ad andarsene; ma dove può rifugiarsi una barbara? Ormai la sua patria e la sua famiglia la odiano e lei non può far altro che vendicarsi su Giasone. Decide, dunque, di uccidere la sua nuova sposa, che l'ha disonorata contraendo con lui queste nuove nozze, e il padre di lei, che l'ha cacciata da Corinto. Decide, inoltre, di uccidere anche i suoi stessi figli. Per l'uomo greco la fine in battaglia garantiva la gloria eterna e avere un figlio voleva dire lasciare una parte di sé in vita dopo la propria morte. Ebbene Medea, uccidendo i suoi figli e la nuova sposa di Giasone, lo priva della sua prole presente e futura. In questo modo, l'uomo non ha più motivo di vivere. Questa decisone è il momento più tragico di tutta la tragedia. In pochi versi assistiamo al dramma psicologico portato alla massima tensione. Medea è convinta di uccidere i suoi figli, ma tentenna dopo aver visto i loro teneri occhi innocenti ed ignari di ciò che sta per succedere. Dunque, è indecisa e prova perfino a convincersi di dover scappare con loro e risparmiarli. Ma alla fine, con razionalità, delibera che deve ucciderli. Lei riesce ad essere così decisa perché è un’eroina, ma soprattutto perché è una donna, ben consapevole della sua condizione in quanto “donna” in quel tempo.

 

La donna nella tragedia appare spesso più forte dell’uomo, inarrestabile, invincibile, capace di stravolgere l’ordine sociale per il suo fortissimo legame con la natura (basta pensare alle Baccanti). La tragedia funge come specchio della società, una società maschile fondata sulla centralità dell’uomo che, essendo ben consapevole di questa forza e temendola, aspira a sottometterla, prevaricando sulle leggi della natura. Ciò ci pone sotto gli occhi il continuo scontro tra la razionalità maschile, che tende all’utile, e la potenza istintuale femminile, che tende al giusto (Antigone). Ancora oggi, moltissime società sono basate su un ordine maschilista che tende ad imporre determinate condizioni che danneggiano gli equilibri naturali. Questo conflitto, durerà per sempre e ricorda quello tra leggi positive e leggi naturali. L’unica soluzione è continuare a lottare, uomini e donne, per trovare equilibrio che rispetti nella stessa misura le specificità maschili e quelle femminili.

 

 

 

Ferdinando Esposito, 4B

 

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